Sara consiglia di leggere ascoltando: The Animals, House Of The Rising Sun.
Sangue fatto di catarro
Di Sara Pistidda
Mio nonno era un farabutto.
Classe ‘22, pancia solida e spalle larghe. I pochi capelli che aveva erano setole ispide radunate su tempie e nuca. Il resto erano pori unticci, un cumulo di imperfezioni e un naso grossolano. Mio nonno era lurido, rauco e scorbutico. La sua era la generazione brava a spaccarsi la schiena, letteralmente, tra lavoro e sediate. Una mano sempre accanto al posacenere e una a reggere bicchieri tozzi in solidissimo vetro opaco. Entrambe, comunque, spesso arenate sui braccioli della poltrona davanti alla TV.
Era figlio di una religiosità obbligatoria, col gomito piegato per sorreggere una moglie silenziosa e piena di rancore lungo il tragitto verso la chiesa, ogni sabato sera e domenica mattina.
A mia nonna non ho mai creduto: compita, devota, ordinata. Sembrava pulita, ma ungeva i capelli in una crocchia che non scioglieva mai. Sembrava scema, ma l’ho vista spesso macinare idee, con lo sguardo perso oltre i vetri delle finestre.
Nonna pregava sempre. La raggiungevo ogni mattina alla stessa ora, sul finire di quel rito segreto di sgranare un rosario sulla tovaglia del soggiorno. A nonna tutti volevano bene, nonno lo odiavano pure i figli. Perché lei era devota, lui no.
Non so se mio nonno credesse in un qualche Dio, in effetti, però mi ripeteva spesso che Garbutt faceva miracoli con “quei ragazzi”.
– Quanti anni hai adesso?
– Nove.
– Ma va’. Sette, al massimo.
– No, ne ho nove. Chiedilo a Pietro.
– E chi cazzo è Pietro?
– Nonno! Hai detto una parolaccia!
– Eh, e che fa?
– Non si dicono le parolacce!
– Ma smettila, va’.
E io l’ho smessa. Subito subito. Perché mio nonno era un uomo sbrigativo e non me l’avrebbe ripetuto ancora, di smetterla. A me lui non piaceva, a nessuno piaceva, eppure gli ronzavo sempre intorno perché emanava veleno: tutto ciò che gli adulti solitamente trattengono in presenza di un bambino. Non mio nonno, però. Lui mi riversava addosso oscenità che assorbivo come una spugna. Tutto in lui mi disgustava e, quindi, attraeva. Per esempio, ero convinto che avesse le vene sporche e il sangue fatto di catarro.
Una buona parte dei miei ricordi lo vede seduto a bere o a fumare o a fare entrambe le cose con gli occhi puntati sulla pagina nera del Totocalcio.
– Ma vaffanculo va’, altro che Serie A.
– Sei arrabbiato?
Non mi guardò neanche. Mi rispose parlando al televisore.
– Per forza! ‘Ste merde ne perdono una sì e l’altra pure.
– Perché non tifi la Juve, che vince sempre?
– Eh, facile così, vero?
Chissà a che età, esattamente, ho capito cosa intendesse dire.
– Tu tifi quei gobbi di merda?
– Chi sono i gobbi?
– Che squadra tifi, ah?
– Nessuna. Mi fa schifo il calcio.
– E perché ti fa schifo?
– Boh, perché sì.
– Ma ci sai giocare?
– No. Ma tanto mi fa schifo.
Lo dissi senza guardarlo in faccia, perché a mio nonno il calcio piaceva parecchio e lo schiaffo volevo prenderlo nella nuca e non sulla bocca. Ma non mi colpì. In realtà non lo aveva mai fatto, ma era come se io ricordassi il dolore delle sue botte. Non l’ho mai visto colpire niente, in effetti, se non il tavolo o la scacchiera quando perdeva al gioco della dama.
Con uno dei suoi brontolii sollevò una grossa chiappa e infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni, da cui estrasse il portafogli. Lo aprì e con le dita enormi sfilò da uno scompartimento una foto parecchio consumata.
Vidi che raffigurava undici uomini disposti su due file; le camicie bianche abbaglianti erano in netto contrasto con baffi e occhi, che erano così scuri e indistinti da sembrare voragini. Mi guardavano fisso e in qualche modo compresi che erano tutti morti.
Le mani di mio nonno erano callose, piene di segnacci, con le unghie sempre nere. Ogni tanto ne aveva una livida, pestata facendo chissà cosa chissà quando. Avevo paura delle sue mani. Così pesanti che sicuramente prima o poi mi avrebbero ammazzato. Ma quella foto la teneva piano, come si tiene un grillo appena catturato.
– E questi li conosci?
– Sì.
– E chi sono?
– Non lo so…
– E allora vedi che non li conosci?
– …
– Adesso te lo dico io chi sono, poi però li impari a memoria.
– Okay.
– Questo è Baird, questi due sono De Galleani e Spensley. Poi c’è Pasteur, Ghiglione e questo qui si chiama Ghigliotti. Lui è Le Pelley, lui Leaver, Bertollo, Bocciardo e questo è Dapples.
Me li indicò in ordine sparso, non so se fosse casuale, ma il tono cantilenante mi ricordò quello con cui nonna si appellava ai santi durante le preghiere.
Li ripetè tre volte e mi costrinse a fare altrettanto prima con lui e poi da solo, finché quella nenia non mi entrò in testa a forza, incastrandosi tra il Padre Nostro e Fra Martino Campanaro.
– Questo è il Genoa, nella formazione del 1898. L’anno che abbiamo vinto il primo Campionato.
– Il primo Campionato?
– Eh, il Campionato è dove giocano tutte le squadre ogni anno.
– Il Genoa aveva battuto anche la Juve?
– Ma che Juve. La Juve non esisteva mica. Non esistevano neanche l’Inter, il Milan e tutte le altre.
– E allora come ha fatto a vincere se non esistevano le altre?
– A quel tempo mica era come oggi. C’erano solo quattro squadre. Tre di Torino e una di Genova.
– …
– Tu non ne sai niente di Calcio, vero? È ora che impari.
– Quando mi spieghi?
– Eh, poi. Che tra un po’ è ora di cena e tuo padre ti viene a riprendere.
– Domani?
– Vediamo. Ripeti la formazione, se sei bravo nonno ti fa un regalo.
– E cosa?
– Un regalo bello bello.
– Che regalo?
– Gliela dici questa formazione a nonno o no?
Gliela dissi. Senza sbagliare. Non mi fece comunque nessun regalo.
Da allora iniziai a ripeterla ossessivamente anche a casa, a scuola, prima di dormire e mentre mi lavavo i denti. La ripetevo giocando a Campana in cortile la domenica dopo pranzo e anche quando mi scappava la cacca.
Era uno scioglilingua tutto mio.
Berdegalleanispenslipastè. Ghiglioneghigliottilepellilevè. Bertollobocciardodapplè.
Il primo tiro di sigaretta l’ho fatto a dieci anni. Mio nonno era andato in bagno e ne aveva lasciato una accesa nel posacenere, proprio accanto a me. Lo vedevo fumare in continuazione e mi sono sempre chiesto che gusto ci provasse, che sapore avesse, quali meraviglie lo spingessero a far fuori un mozzicone dopo l’altro, schiacciandoli in quel piattino di ceramica dai decori gialli e azzurri, ormai anneriti.
Quel giorno, appena sentii la porta del bagno chiudersi, presi la sigaretta tra le dita come gli avevo visto fare tutte le volte e, nel momento in cui la chiave girò nella toppa, portai il mozzicone alle labbra. Provai a succhiare, ma la bocca mi si riempì di un saporaccio e la spalancai per sputare fuori tutto il fumo. Non mi piacque neanche un po’ ma non poteva essere tutto lì. Non poteva essere questo, fumare.
Ci riprovai, avevo le labbra amare. Le dita puzzolenti. Ero così concentrato, tra un tentativo e l’altro, che non sentii mio nonno tornare. Non so per quanto tempo sia rimasto alle mie spalle a osservare la scena, ma quando me ne resi conto non provai nemmeno a inventare una scusa, perché mi accorsi che non sembrava arrabbiato.
Tornò a sedersi sulla sua poltrona, prese la sigaretta e ne trasse una lunga boccata.
Rimase qualche istante in silenzio a contemplare le capriole di fumo, poi me la avvicinò alla bocca.
– Sai nuotare?
– Un pochino. Sì.
– Usi il boccaglio?
– Qualche volta…
– Bene. Devi respirare dalla sigaretta come se fosse un boccaglio.
Provai a fare come disse. Nel farlo vidi da vicino i suoi polpastrelli e notai che erano giallognoli.
– Ora butta fuori.
Mi bruciò un po’ la gola, come quando bevevo latte troppo caldo. Davanti al mio naso si accumulò una nuvoletta di fumo. Non mi sentivo diverso, e anche se mi pizzicava la gola, sporsi il mento in avanti, per provare ancora. E ancora.
Mio nonno sorrideva, fiero quasi come quando gli ripetevo la formazione del Genoa del 1898. A nessuno piaceva, nemmeno quando sorrideva. Però sorrideva, mio nonno. Di nascosto come fosse una vergogna.
Dopo la morte di mia nonna, mio nonno perse durezza, solidità. A poco a poco si è fatto molle e ogni suo angolo ha preso a erodersi come succede alle coste dopo secoli di vento. Ma a lui è successo nel giro di un anno.
Lo stesso anno che il Genoa ha rischiato di finire in Serie B, evitandolo letteralmente all’ultimo; però mio nonno non ha esultato per la salvezza: gli occhi puntavano lo schermo ma secondo me non lo guardava.
Poi semplicemente si è spento.
Non lo schermo: mio nonno.
Blackout. Buio. Me ne sono accorto solo io, perché nessuno guardava mio nonno, nemmeno i figli suoi. Hanno pianto per nonna. Per nonno, no.
Vorrei chiedergli se è andato da sua moglie o a tormentare i giocatori della Sampdoria. Vorrei chiedergli se si ricorda tutte le cose che ricordo io.
Ma ora che ho trent’anni e il feretro che lo custodisce mi passa davanti, l’unica cosa che so fare è pregare. A modo mio, però. Perché a modo mio prego anch’io:
– Berdegalleanispenslipastè. Ghiglioneghigliottilepellilevè. Bertollobocciardodapplè.
Sara Pistidda
Nata in Sardegna nel marzo dell’89, ha imparato a leggere e scrivere a 4 anni. L’amore per la parola scritta è cresciuto con lei e, dopo studi classici al liceo e umanistici all’università, si è ritrovata a vivere a Torino, dove lavora come Copywriter e Social Media Strategist presso Musemediali, un collettivo di freelance social e digital di cui è cofondatrice. Sfacciatamente nerd e strega in incognito, ha la testa spesso tra le nuvole e i pensieri pieni di vento (rigorosamente Maestrale). Nel tempo libero legge, scrive, ascolta rock anni ‘70, tifa Genoa e vive vite parallele nei gdr online. La luna è la sua cosa preferita e il suo sogno nel cassetto è scrivere un libro, anche se nel frattempo si accontenta di sfornare racconti.
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