Beatrice consiglia di leggere ascoltando: Adrianne Lenker, Terminal Paradise.
Sottotetto
Di Beatrice Masi
Domenica quindici aprile ti ho mentito. Ti ho scritto alle dodici dicendoti che era andata via la corrente, e te mi hai risposto dieci minuti dopo con: forse un calo di pressione elettrica… non lo so. In realtà mi sono quasi uccisa con il tostapane, con gli occhi abbottonati dal post-sbornia ho infilato un coltello nella griglia per estrarre il toast più in fretta e: pam! Una scintilla mi ha lasciata al buio. Se me lo chiedi, è stata la casa a salvarmi: l’impianto salvavita, con un’intuizione sinaptica, ha bloccato la scossa elettrica che stava per sfogarsi nel mio braccio, inchiodandomi a terra. Anche adesso, quando ripenso a quel giorno, mi rendo conto che la casa era sempre stata viva: le pareti che scricchiolano, la polvere che viene e che va, i rubinetti che gocciolano, le finestre che si aprono inavvertitamente. Mi chiedo se tu te ne sia mai accorto.
La prima volta che ti ho visto è stato nella foto che hai sul mobiletto della cucina. Il taxi mi aveva lasciato davanti casa tua alle undici, quando eri ancora a lavoro. Mi ha aperto un uomo che viveva alla fine della strada, gli avevi lasciato le chiavi. Qualche breve convenevole: Da dove vieni? Come ti chiami? Quanto ti fermi? A. ha detto che la stanza è quella di sopra, alla fine del corridoio, dice che puoi iniziare a sistemarti. Poi mi ha lasciata sola. Così ti ho visto per la prima volta nella foto, mentre bevevo un bicchiere d’acqua al lavandino. Un’immagine piccola sul vetro della dispensa. Avrai avuto sette anni: capelli biondi e ricci, sorriso accennato, manine che incorniciano il viso, un bambino carino. Perciò la sera, quando ti ho incontrato, mi ha sorpreso notare che avessi un occhio pigro, che si ingigantiva dietro le lenti sottili dei tuoi occhiali inizio duemila. Mi hai spiegato tutto quello che c’era da sapere: lavastoviglie, lavatrice, spazio nel frigo, funzionamento di doccia e riscaldamento. Mi sei sembrato simpatico, disponibile. Alla fine, mi hai offerto un tè, una scusa per fare due chiacchiere. Mi hai raccontato del tuo lavoro come operaio in una farmaceutica in periferia, che eri nato e cresciuto nel quartiere, che la maggior parte della tua famiglia viveva in zona. Io invece ho parlato del mio periodo di ricerca in università, che era poi il motivo che mi aveva spinto a cercare un affitto temporaneo a casa tua. Credo che possiamo entrambi concordare sul fatto che fin da subito la cucina è diventata il nostro spazio di incontro. Confesso anche che spesso, soprattutto le prime settimane della mia permanenza, le nostre conversazioni serali alleviavano il mio leggero senso di solitudine. Qualche volta, quando cucinavo in abbondanza, ho anche condiviso con te il cibo che preparavo. Una di quelle sere mi avevi parlato di quando avevi deciso di costruire la casa. Un progetto ambizioso per un ragazzo di ventotto anni, avevi rimarcato, soprattutto, avevo pensato io, per le dimensioni sproporzionate della casa. Avevi pensato al progetto insieme a un architetto che conosceva tuo padre: il salone e la cucina, le scale che portavano al piano di sopra, le tre grandi camere da letto, e i rispettivi bagni. Per costruirla avevi comprato un grande terreno in campagna, avevi abbattuto gli alberi e bonificato un piccolo stagno che sorgeva al centro della proprietà. Non ti ho mai chiesto, per non essere invadente, se avessi pensato alla casa con l’idea di avere una famiglia. Qualche volta quella supposizione riaffiorava nella mia mente lasciandomi un senso di malinconia per quel futuro tanto programmato e mai raggiunto. In ogni caso, mesi dopo, ha cominciato a sembrarmi strano che nonostante fossi stato tu a progettare la casa tanto minuziosamente non riuscissi a renderti conto di come stesse inevitabilmente cambiando. Forse però ti capisco, quando si è abituati a qualcosa si fa fatica ad accettarne i mutamenti fino a risultare ciechi. Pensavo che per lo meno avresti notato il basilico: un ramo unico che era cresciuto fino all’asta della tenda; gli ultimi centimetri coperti da fiori. Un’infiorescenza insolita per una pianta aromatica comprata tra gli scaffali del supermercato, quelle prodotte solo per essere spogliate e mangiate, bollite in pentola o fritte alla prima occasione. Lo avevo comprato io, sono sicura che te ne ricordi. Per giorni avevo sradicato alcune delle piante nel vaso per lasciarne solo due così che avessero spazio per le radici. Mia mamma dice che la causa più frequente di mortalità per il basilico da supermercato è il sovraffollamento di piantine in un unico vaso. Quella rigogliosità apparente non permette alle radici di ossigenarsi ed espandersi, condannando le piante alla morte. Nonostante tutto, il basilico era cresciuto e tu non lo hai notato fino a due domeniche fa, quando tua sorella è venuta a trovarti. Lei ha ammirato la pianta, complimentandosi con te per la cura che le avevi riservato. Era prevedibile che tu non le dicessi che fossi stata io a prendermi cura del basilico, del resto volevi evitare a tutti i costi di parlare di me. Nonostante ciò, sebbene me lo aspettassi, ne sono comunque rimasta delusa.
Anche per me ci è voluto un po’ per capire che le cose stavano cambiando, che qualcosa aveva fatto breccia nella calma a cui mi ero abituata nelle prime settimane di soggiorno. Quei primi giorni nella casa erano passati lenti, tra studio solitario e passeggiate lungo il fiume, un periodo per concentrarmi su me stessa, sui miei studi. Poi un giorno, non so dire bene quando, ho notato uno scintillio obliquo nei tuoi occhi, una delle sere in cui eravamo seduti al tavolo con la pioggia che cadeva fuori. Ho pensato fossi stanco. Da quel giorno sono successe molte cose. Alcune erano occorrenze quasi insignificanti: un movimento della mano, uno sguardo, una parola fuori contesto, una risata troppo acuta. Poi, una notte, mentre ero a letto a guardare un film, ho sentito dei passi fuori che si fermavano di fronte alla mia porta. Mi sono inginocchiata fino al buco della serratura e ti ho visto lì, in piedi, a torso nudo, che fissavi verso camera mia. Un sabato sera, invece, dopo essere tornata a casa da una passeggiata in centro ti ho trovato in cucina al buio, ci siamo salutati a malapena e poi sono corsa su. Ho cominciato ad evitarti; cenavo più presto del solito, verso le sette, e mi rintanavo subito in camera mia. Sussultavo quando sentivo la porta di sotto aprirsi e il rumore dei tuoi passi salire su per le scale ricoperte di moquette. La notte non riuscivo più a dormire immaginandoti appostato fuori la mia porta, e se per caso dovevo alzarmi per andare in bagno cercavo di non fare rumore, con il cuore che mi batteva forte in petto. Non avevo nessuno in zona con cui parlare di quel timore cupo e profondo che si era insediato in me. Avevo paura di contattare i miei familiari o le mie amiche e farli preoccupare per qualcosa che forse era solo nella mia testa. D’altronde come sarebbe stato possibile che un uomo come te, così normale, così gentile, potesse essere una minaccia? Una sera però, di ritorno dal cinema ti ho trovato sveglio, in piedi all’inizio del corridoio che portava in camera mia. Sei rimasto in silenzio finché io non ho detto buonanotte, per stemperare la tensione, e te senza smettere di fissarmi hai ripetuto buonanotte anche a te. Il giorno dopo ho deciso di parlarne con una mia amica; l’ho chiamata mentre camminavo lungo il fiume, e le ho spiegato come i tuoi comportamenti avessero instillato in me la paura di qualcosa che non riuscivo a mettere in parole. Dopo quasi un’ora di discussione, trattando di soppesare i pro e i contro e capire cosa stesse succedendo, io e la mia amica abbiamo concordato che era giusto che io me ne andassi. La soluzione migliore per me era scappare. Così sono tornata a casa e mi sono chiusa in camera. Ho trovato un biglietto aereo per quattro giorni dopo, e ho fatto la valigia.
Ho capito di essere morta quando ho sentito il sapore di intonaco in bocca. Quando ho visto due grossi lividi sui miei polsi e le gambe storte e piene di graffi accartocciate vicino al ventre. L’ho capito anche perché non riuscivo a muovermi, tutto intorno a me era buio e dalla mia bocca non usciva più fiato. I flash sono iniziati qualche ora dopo. Tu che bussavi alla mia porta di notte – avevi intuito che stessi per andarmene. La tua mano sul collo. Il letto, le grida. E poi ancora le mani sul collo e io che smettevo di respirare.
Dopo tre giorni nel muro ha cominciato a mancarmi il fiume, che poi era proprio lì vicino, dieci minuti a piedi dalla casa. Perciò, mi sono mossa per cercarlo, seguendo l’acqua nelle tubature. Così ho capito che potevo spostarmi, che non ero confinata in quell’angolo buio in cui mi avevi nascosta. Potevo lasciare il mio corpo lì e uscire fuori. Ho seguito l’acqua al di là delle pareti e mi sono mossa nelle tubature fino ad arrivare ad un canale di scolo che si riversava nel fiume. Una volta nell’acqua, un airone mi ha guardata e ha fatto un verso aprendo il becco. Sono rimasta un po’ lì, ma poi sono tornata indietro, a ritroso nel labirinto di tubi fino alla casa. Ho iniziato a muovermi lungo le pareti e i pavimenti, sostando negli angoli, osservandoti. Mi stupiva vederti così calmo, così ancora radicato nella tua routine dopo quello che avevi fatto. È stato l’airone – lo stesso che avevo incontrato al fiume, a far breccia nella tua tranquillità. Ha cominciato ad appostarsi sul davanzale della tua finestra ogni notte, fissava dentro, allungava il collo ed emetteva il suo verso ripetitivo e acuto. Nonostante i tuoi tentativi di mandarlo via, l’airone rimaneva lì, inamovibile, rendendoti impossibile dormire. Malgrado le notti insonni, hai comunque impiegato molto a notare i cambiamenti della casa. Finché Hanna, la donna che puliva casa tua una volta a settimana, ti ha detto A., nel bagno di sopra, quello per gli affittuari, ha cominciato a crescere del muschio verde tra le mattonelle. Così sei andato su e hai ispezionato la situazione, sicuramente hai pensato fosse solo umidità. Proprio in quel momento ti sei girato, di scatto, e hai visto l’airone dietro di te che spalancava il becco e ti urlava contro per poi volare via attraverso la finestra aperta della tua camera.
Ti confesso che ho impiegato un po’ di tempo a capire che gli eventi che accadevano nella casa fossero legati a me, a quel corpo morto nascosto nel sottotetto. Non so se una donna putrescente può fertilizzare i muri, nutrire il cemento. Ho cominciato a pensarlo quando il cactus in veranda è cresciuto fino a un metro e mezzo, ha rotto il vaso in cui era rinchiuso e si è innalzato sulla terra sparsa. Non so se fossero le mie cellule che si disperdevano nell’intonaco delle pareti o la mia rabbia, so solo che ad un certo punto ho iniziato a usare quel potere. Una mattina, due settimane dopo avermi uccisa e nascosta nel sottotetto sopra la camera che avevo affittato, ti sei alzato per fare colazione e hai aperto il bidone dell’umido per gettare una buccia di banana. I resti di cibo erano pieni di insetti e vermi che hanno cominciato a uscire e strisciare sul linoleum. Hai provato a calpestarli con gli infradito ma più ne uccidevi e più ne uscivano dal bidone. Così sei corso al piano di sopra per prendere uno spray repellente dallo sgabuzzino. È stato divertente guardare la tua faccia sorpresa quando hai visto che l’anta di apertura era ricoperta da un rampicante verde scuro, con tante piccole foglioline screziate sui lati. Hai provato a forzare la maniglia, ma nulla, la pianta era più forte di te. Hai iniziato a sentire l’effetto urticante delle foglie appena un minuto dopo averle toccate. Uno sfogo rosso si è allargato dal tuo pollice destro fino al fondo della schiena. Ti dimenavi, cercavi di grattarti, di raschiarti via la pelle. Alla fine, ti sei spogliato di corsa e sei entrato nella vasca piena di muschio. Nel mentre i vermi dal piano di sotto hanno cominciato a risalire le scale di moquette e te li sentivi strisciare. Il getto d’acqua ti ha dato un momentaneo sollievo fin quando dal bocchettone non ha cominciato a echeggiare forte il verso acuto e persistente dell’airone, e i vermi non hanno iniziato a entrare in bagno. Tu hai tentato di uscire dalla vasca orami piena d’acqua, ma non ci riuscivi. Delle alghe dure e spesse ti si erano legate ai polpacci, ti graffiavano la carne e ti inchiodavano lì dov’eri. Hai provato a urlare ma nessuno poteva sentirti, il getto d’acqua copriva ogni rumore. Le alghe hanno cominciato a crescere e ad arrampicarsi sulle tue gambe, sulle natiche, il pene, la pancia e le braccia e trascinarti giù, nell’acqua. È a quel punto che ho smesso di guardare, e sono tornata al mio corpo. Riuscivo a sentire i tuoi gemiti in bagno, ma le alghe, i vermi e il muschio continuavano a trattenerti, a soffocarti. Anche loro dovevano essere molto arrabbiati con te. Tornata al mio corpo l’ho salutato per l’ultima volta, come una casa tanto amata che si è costrette a lasciare. Poi sono andata via, ho ripercorso i tubi fino al fiume, e lì ho visto di nuovo l’airone, mi ha guardata e io mi sono lasciata andare nell’acqua. Giù nel flusso fino alla foce. Una o due volte mi sono chiesta cosa abbia pensato chi ha ritrovato i nostri corpi nella casa. O se avessero ritrovato solo il tuo e il mio invece fosse rimasto lì nel sottotetto per sempre.
L’airone mi ha detto che la casa è diventata un nido, che non ci sono più umani ad abitarla. Poi non ne abbiamo più parlato; qualche volta, quando risalgo la corrente lo vedo che vola sopra di me e ci guardiamo attraverso l’acqua che scorre tra noi.
Beatrice Masi
Vive a Bologna dove insegna inglese, traduce e scrive. Ha da poco concluso un dottorato di ricerca in World-Literature e studi anglofoni. La sua ricerca si incentra sulla funzione del perturbante come mezzo di demondificazione nella letteratura irlandese scritta dopo il crollo economico.
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