Alessandro consiglia di leggere ascoltando: Mina, E se domani.
Un filo di tempo
Di Alessandro Prandi
1 – Osservazione
Freddo, tuoni lontani e un acquazzone in arrivo. Notte. Scenario perfetto, considerata la situazione. La cenere si stacca dal mozzicone, ondeggia per un istante e svanisce nel vento che spazza il marciapiede. Marta, con la mano libera appoggiata al tettuccio arrugginito di un’auto parcheggiata lì davanti, tiene lo sguardo inchiodato alla finestra del terzo piano di un palazzo di sette. Edilizia popolare di fine anni ’50: settantun ettari, dodici lotti, cinquemila alloggi alcuni in via di completamento. Torino, quartiere Vallette. Una serie di geometrie quadre tutte uguali. Stessi viali, stessi cortili, stessi balconi ingombri di biciclette e ceste vuote.
Le tende, di un beige appena trasparente, schermano la luce all’interno. Dietro il tessuto scivolano due figure che appaiono e scompaiono in un movimento irregolare, intermittente, strappato dalla foschia che si intreccia al chiarore dei lampioni. Ricorda una danza maldestra, non lo è. Marta sa cosa sta succedendo. Un uomo e una bambina, suo marito e sua figlia. Lui si muove con la pesantezza di un predatore, gesti lenti e inesorabili che si godono l’attesa prima dell’assalto. Lei è una piccola ombra sfuggente, che vorrebbe evitare lo scontro. Non esiste via d’uscita, la stanza è troppo piccola e questa una storia troppo ingiusta. Marta pianta le dita sulla lamiera; ha già vissuto questa situazione, anche da qui può sentire i grugniti, le suppliche e il pianto.
Alla Rinascente non ci ero mai stata. Le luci fanno male agli occhi. Scaffali in ordine, facce pulite, persone a modo. Mi guardano e non mi guardano. Sono dentro il negozio da cinque minuti: prendi qualcosa ed esci, mi sono detta. La bambina ha bisogno di un vestito, quello che porta sempre addosso si fa ogni giorno più corto. Una madamina si è accorta di me, forse ha capito. Devo fare in fretta. Tiro su uno scamiciato a fiori e lo nascondo sotto il paletò.
«Signora, scusi.» Le parole del sorvegliante cadono come lame. Scappare, resistere, ribellarmi. Ci provo ma non serve.
Un anno e mezzo di carcere, Marta è libera da oggi pomeriggio. Non doveva andare così. Rubare le era sembrato l’unico modo per fare qualcosa di buono per sua figlia. Invece l’ha abbandonata sola, nove anni ancora da compiere, in mano a quell’uomo che ha iniziato a battere lei invece della madre. Sono diciotto mesi che non li vede. Non è stata una sua scelta, ma cosa cambia?
Dicono che è finita, esco. Mi specchio nella faccia di un’altra persona. Sono io. Non riconosco i miei trent’anni. Guance scavate, occhi marroni spenti. I capelli sono secchi e spezzati. Li avevo lisci una volta, neri e lunghi fino a metà schiena. Ora li tengo come capita. In carcere non si può fare altro. Passo una mano sul viso. È grotolù, come spalmato di sabbia.
La notte qui dentro è il momento peggiore. Il rumore delle chiavi che girano nella serratura spezza ogni tentativo di sonno, e il respiro interrotto dai singhiozzi sommessi, riempie l’aria. «Quando esci, che farai?» ci si chiede a vicenda.
La prima goccia di pioggia si aggiusta alle lacrime. Un’ultima occhiata verso la finestra: un passo avanti, un passo indietro, un colpo. Sa cosa dovrebbe fare: entrare e mettersi in mezzo, prenderle lei invece della piccola. Ma è il coraggio che manca. La paura di subire ancora, e ancora, e ancora. È qui che arriva il vomito. Piegata in due, si tiene lo stomaco e lascia che esca denso e giallo a inondare l’asfalto e spurgarle l’anima.
Si rimette in piedi, passa il polsino della maglia sulle labbra, gira le spalle, stringe le braccia nel giaccone e se ne va; la corriera non aspetta certo lei. Una volta a bordo ripassa il pezzo di carta che le ha lasciato una compagna di cella: casa Anna è stato scarabocchiato con una calligrafia incerta, poi un indirizzo e un numero civico.
2 – Tentazione
Una palazzina art déco degli anni ’30, con la facciata ingentilita da fregi consunti, si affaccia discreta sulla via non lontano dalla stazione dei treni. Da fuori, le linee curve e i balconcini in ferro battuto le danno un’aria di nobiltà sbiadita. La porta appena schiusa rivela una figura minuta con capelli grigi raccolti in una treccia, Marta si blocca mentre Anna la scruta come per trapassare la pelle.
«Mi hanno detto che qui posso trovare un posto.»
«Entra.»
All’interno tutto sembra più piccolo, quasi che gli anni abbiano ristretto le stanze. Donne in transito silenziose, con passi rapidi e sguardi sfuggenti, scivolano lungo i muri come per non farsi vedere neppure dalle pareti. Qualcuna si volta appena, diffidente e dubbiosa sul reale conforto che può trovare qua dentro. Ovunque c’è vita trattenuta: borse posate vicino agli stipiti, sciarpe lasciate a metà sui braccioli delle sedie, persino i ganci delle tende sembrano pronti a cadere, come se tutto fosse temporaneo. Ogni superficie è occupata da oggetti che parlano di un passato complesso: libri con il dorso consumato, candele arrivate alla fine dei loro giorni, amuleti di metallo ossidato, un pugnale che sembra risorto dalla notte dei tempi, una bomba a mano senza spoletta. E un miscuglio di profumi e umidità che ti avvolge e impedisce di uscire. Governa una regola sola: niente maschi. Non c’è scritto da nessuna parte, ma lo capisci subito.
«Ci sono mattine che mi sveglio e non riesco a respirare.»
Marta potrebbe dire di più sulla mescolanza di panico e vergogna che si fa largo nel sonno, ma le iperboli non sono mai state nelle sue corde.
«Passerà, vedrai che passerà», risponde Anna, con un accenno di carezza sulla mano, quasi che il conforto fosse una concessione, un prestito. «Passerà, forse», aggiunge come un appunto a futura memoria.
Lei è minuta, i capelli grigi raccolti in una treccia che incrocia dietro al collo che cade sulla spalla sinistra. Sull’avambraccio destro è impresso un numero di sei cifre che non fa nulla per nascondere, è una sopravvissuta. Scruta ogni angolo del volto di Marta, però senza fermarsi troppo a lungo.
Anna si alza e va verso la credenza. Da un piccolo barattolo di vetro prende una manciata di erbe che inizia a sminuzzare in una scodella, poi le affoga in un pentolino pieno d’acqua che appoggia sulla piastra della stufa a legna.
«Sai cosa mi fa più disgusto?» le chiede, senza voltarsi. «L’idea che per quelle come noi tutto è immutabile, un giorno via l’altro sempre uguale. Non resta far altro che scappare.»
Marta la osserva. La frase la colpisce, come se Anna avesse tradotto in parole quello che la tormenta.
“Quelle come noi?” vorrebbe chiedere, ma ha già la risposta: chi viene picchiata, quelle incinta senza nessuno a fianco, le puttane che non vogliono più rimanere in strada.
«Quelle come noi», conferma.
Anna la incalza: «Se potessi tornare indietro lo faresti?»
«Tornare indietro?»
«Sì. Tornare a prima che cominciasse. Prima che conoscessi quell’uomo. Prima che lui si prendesse tutto», scandisce.
«Non capisco…», ma come un cane che aspetta sull’uscio il ritorno del padrone, un pensiero inizia a venirle incontro.
Anna si siede di nuovo al tavolo: «Se ti dessi l’occasione, se avessi una possibilità di tornare indietro, la useresti?»
«Non è possibile.»
«Non è possibile secondo chi?»
3 – Resignazione
L’abito da sposa stringe, graffia le spalle, la stoffa punge. Non è come me l’ero immaginato. Manca l’aria. Manca tutto. Sta’ dritta Marta, sorridi Marta, non mi viene. Soffocano. Mamma tira il velo, le zie parlano tutte insieme. E le mani, troppe e sempre addosso. Mi sento come un palo piantato dritto nella terra.
Carlo è davanti alla chiesa. La camicia troppo bianca, il dopobarba troppo forte. Mi bacia sulla guancia. Ecco, è fatta. E intorno gli occhi della gente sono tutti addosso a lui e a me.
Anche quelli di Michele: si perdono nei miei prima di allontanarsi e prendere il sentiero del bosco, se solo sapesse. Se sapessero tutti quanti delle nostre iniziali (M e M) scavate sul tronco di una quercia nel bosco. Le donne con i fazzoletti, i bambini con i pollici sporchi di caramelle che si attaccano ai pantaloni corti, i vecchi appoggiati al muro della chiesa. Se sapessero. Non ho detto a nessuno che da tre settimane il marchese non viene.
Che buona scelta hai fatto, un uomo d’esperienza! Esperienza? La guerra è finita da qualche anno e la camicia di Carlo prima era nera, non di questo bianco troppo bianco. Parla piano, le parole gli pesano, si fermano come fango sulla lingua. Un banco di frutta e verdura, la gente dovrà pur mangiare, ha detto papà senza guardarmi. Non sa ancora che tra qualche anno Carlo se lo giocherà al tavolo delle carte. Va bene così, Marta. Hai vent’anni e devi essere grata. Grata per cosa? Per questa stretta alla gola? Per queste scarpe che fanno male?
A pranzo siedo accanto a lui. Beve forte. Ride forte. Beve ancora e la lingua si scioglie. Parla solo con gli uomini, uomini che alle sue parole abbassano gli occhi. Racconta storie che sanno già. La guerra, i tedeschi, Salò. Era da quella parte, ma oramai sembra che sia stato perdonato. Io mastico piano e non passa niente. Vorrei correre via scalza, ma l’anello mi blocca. È pesante. Ora sei sua, dice senza dirlo.
4 – Rettificazione
«Un pezzo di stoffa che ti fa viaggiare nel passato?» Marta scosta la tazza ormai fredda e si alza, non ha bevuto nemmeno un sorso. Lei e Anna hanno fatto mattina a parlarne. Cammina, nervosa, per la stanza cercando di distogliere gli occhi da una specie di scialle appoggiato sullo schienale di una poltrona. È bianco con sottili strisce blu e delle frange, consumato ai bordi ma ancora integro: «È un Tallit – spiega Anna prendendolo in braccio – quando lo indossi, puoi entrare nel tessuto degli anni, dei secoli addirittura e muoverti tra le loro pieghe.»
La Kabbalah insegna che il tempo è una trama, non una linea. Riparare il mondo, Tikkun Olam, interagire con eventi passati, influire sugli squilibri che si sono verificati in altre epoche.
«Non è solo spirito, non è solo preghiera. È azione», aggiunge mentre accarezza le frange: «Sono Ttzitzit, rappresentano i comandamenti divini e il legame con Dio. Seguimi», è quasi un ordine. Marta esita, ma le va dietro.
I loro passi scricchiolando sul pavimento di piastrelle malferme mentre attraversano un corridoio stretto color ocra. La porta in fondo ha una vernice screpolata che si sfoglia in mille petali. Anna estrae una chiave d’ottone, apre e fa strada con una lampada ad olio. La scala che porta allo scantinato non è fredda come ci si aspetterebbe, le pareti in mattone emanano calore e senso di protezione. Marta si aggrappa alla ruvidezza del corrimano in legno. Il fondo si risolve in uno spazio semicircolare con al centro un tappeto che si perde nei suoi stessi ghirigori; su di esso si erge un tavolo con sopra un candelabro a sette braccia. Sui bordi, nella penombra, si rivelano delle panche.
«Che cos’è questo posto?»
«Non è il posto a essere importante, ma quello che può offrire.»
Il pensiero prende forma, lento ma inesorabile. E se davvero potesse farlo? E se potesse tornare indietro, scegliere un altro percorso, salvare sua figlia, salvare sé stessa. Ma il tarlo non dà tregua: «E se sbagliassi ancora? E se peggiorassi le cose?» I ricordi si affollano nella sua mente: le grida di sua figlia, le notti insonni in carcere, la faccia senza volto di Carlo.
«Potrebbero essere peggio di così? Ma c’è un prezzo da pagare.»
Le ombre che danzano sui muri come in bilico sulle parole che Anna non ha ancora pronunciato: «Ogni volta che torni indietro, ogni cosa che tocchi, porta con sé dei rischi. Non solo per te, ma per tutto ciò che con te abbia a che fare»
«Mia figlia…»
«Ad esempio. Potrebbe non nascere.»
Marta, forse per la prima volta da non si ricorda quando, tira fuori il miglior sorriso a sua disposizione: «So la data esatta e anche dove andare, non è distante. Cosa devo fare?»
5 – Decontaminazione
13 gennaio 1944, primissimo mattino. Stazione di Porta Nuova, binario 17. Il caporale Carlo Arduini cammina lungo la banchina. Il cappotto nero ben abbottonato e il berretto calato sugli occhi. Accende una sigaretta, schermando la fiamma con una mano. Il tabacco brucia piano, il gusto amaro riempie la bocca, ma non lo distrae. Si sente lucido, sicuro. La sua uniforme è impeccabile, il distintivo della Repubblica Sociale brilla sul petto. Gli hanno detto che i vagoni che stanno per arrivare porteranno ordine, che faranno pulizia. E lui ci crede. Deve crederci. È l’unica strada per dare senso a tutto questo.
Marta apre gli occhi e la stazione appare. L’aria è diversa: densa, carica di odori di carbone e olio combustibile. La gente che cammina con passi veloci, le spalle curve sotto il peso della guerra. Nascosta dietro un pilone stenta a riconoscere, in quel giovane soldato, l’uomo che sposerà tra appena dieci anni. Non dimentica, però, le parole di Carlo nel raccontarle, convinto, il giorno in cui a Torino prese il via la deportazione degli ebrei: «Succederà ancora – aveva borbottato mezzo ubriaco pima di assestarle l’ennesima sberla – questa volta sarà il turno dei comunisti.»
«Una volta che avrai fatto quello che devi vieni qui. Troverai la stessa casa. Mostra la chiave, capiranno e ti faranno tornare indietro», dice Anna mentre mi mette in mano la chiave di ottone che ha usato per aprire la porta del sotterraneo. Poi stende il Tallit sulle mie spalle e intreccia le mani tra le sue frange.
«Baruch Atah Adonai Eloheinu Melech Ha’olam», recita.
Il candelabro è acceso, la stanza sa di incenso e rosmarino. Poi succede: una vibrazione, poi un’altra e le pareti si fanno liquide. Ogni nodo del Tzitzit è vivo, piccoli cuori che battono lontano.
«She’notein Lanu Et Ha’Koach L’taken Et Ha’Olam Derech Ha’Zman.»
Il suo viso svanisce. «Vai a casa mia, prenditi cura di lei!», supplico.
Il tempo sembra distendersi e contrarsi nello stesso momento.
Il rumore degli stivali di Carlo è sovrastato a tratti da quello di un motore lontano.
«È il momento», mormora mentre osserva una colonna di persone avanzare sotto le arcate di ferro della stazione. Le più anziane, sguardo fisso a terra, si appoggiano ai bastoni o alle braccia dei familiari, mentre bambine e bambini cercano un padre, una madre. I pianti vanno a perdersi nel clangore della locomotiva che si sta avvicinando.
È il momento, si dice Marta cercando di levare lo sguardo da quella carovana di disperazione, è già successo e tu, ora, non puoi farci nulla. Prende la rincorsa. Afferra Carlo per la giacca e lo spinge giù. Lui cade e batte la testa sull’acciaio dei binari che si lordano del suo sangue. Un inutile stridere di freni e urla disumane ne certificano la morte.
Marta scappa fuori dalla stazione, inseguita da urla e strepiti. Attraversa cumuli di detriti e desolazione di una Torino bombardata per confondersi tra le strade vuote di San Salvario. Arriva alla casa. Bussa. Riconosce gli occhi di Anna nella bambina che viene ad aprire: «Ciao signora, chi sei?» Alle sue spalle compare una donna anziana. Marta leva di tasca la chiave e gliela posa in mano.
6 – Composizione
Arrivato a questo punto il cognome non serve. Sono Michele, fattelo bastare.
Se le pagine avessero gli occhi vedresti un corpo penzolare da un albero, è mio. Il corpo, non l’albero. Anche la vita che ho lasciato andare è mia. Era. Con gli occhi spalancati, ma vuoti, guardo dentro la chiesa oltre la collina. Marta ha appena sposato quel cittadino merdoso, molto più vecchio di lei. Cos’altro potevo fare, se non trovare un ramo robusto? È stato un errore? Sì, lo è stato. Da quassù (o da quaggiù, dipende dall’idea che si ha dei suicidi) vedo che porta in pancia mia figlia (è una femmina, vedo anche questo. È una prerogativa dei morti). Dovevo fare di più che arrendermi al volere di un padre contadino, allo sparlare di questo grumo di case, alla ferocia dell’uomo che è venuto a prenderla e a portarla via. La vera dannazione non sta nel punto finale dell’esistenza ma in quello che non hai osato fare prima che arrivasse.
Marta si ritrova stesa sul tappeto circolare nello scantinato. Il profumo d’incenso è quasi un ricordo, le fiammelle del candelabro estinte. Il Tallit, scivolato dalle sue spalle, giace a terra.
«Non era figlia sua, vero? – la voce di Anna le arriva alle spalle – Di Carlo intendo», aggiunge come se ce ne fosse bisogno.
«No.»
«È svanito davanti ai miei occhi. Evaporato come se non fosse mai esistito.»
«Lei invece no.»
«Sapevi che sarebbe andata così.»
«Ci speravo.»
Anna capisce che non è il caso di indagare oltre: «Torniamo su.»
Marta risale la scala. Il corridoio sembra non terminare mai.
Si blocca sulla soglia della cucina, il respiro sospeso. La vede. La bambina dai capelli castani, sottili e spettinati, è piegata in avanti sul tavolo intenta a disegnare un insieme di cerchi colorati su un foglio spiegazzato.
«Mamma, sei tornata!» La sua voce è un sussurro carico di meraviglia che prendo il volo dalle labbra. Si alza di scatto, la sedia cade all’indietro, e le corre incontro. Marta in ginocchio spalanca le braccia e la stringe forte dentro di sé. Il calore del piccolo corpo cancella tutto il freddo, tutta la paura, tutto il ricordo. Anna le osserva in silenzio.
«Grazie.»
«Hai riparato un filo di tempo. Ora devi riparare il resto.»
Ci proverà.
Alessandro Prandi
Classe 1964 vive tra i boschi del Roero e Torino dove si occupa di progetti di promozione della cittadinanza attiva. È stato Garante delle persone detenute nel carcere di Alba e scrive regolarmente di welfare e diritti sulla rivista Solidea.
I suoi testi (racconti e poesie) sono stati pubblicati in antologie, su riviste letterarie e quotidiani: Éclair noir, Crack, Racconticon, Repubblica (edizione Torino), 7parole, Enne2
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