Matteo consiglia di leggere ascoltando: Io ero Sandokan.
Bosio e Trumlìn
Di Matteo Marenco
Arrivo e la vedo stagliarsi dall’altra parte della valle, per una volta alla mia altezza. Metro più, metro meno. Da qui posso guardare la Sacra negli occhi, con l’amore consolidato dell’abitudine. Mi siedo sulla panchina in legno. I faggi che punteggiano il pendio della montagna coprono in parte l’orizzonte, ma io so che è ancora lì e che la ritroverò sempre.
Sfioro il bastone di zia Corinna. Mi scuso. Lei mi fissa coi suoi occhi umidi e mi sorride appena. Capisco che non è niente. L’ho vista arrivare da dietro la cappella, col passo ciondolante e incerto e il fazzoletto nero a raccogliere i lunghi capelli grigi.
«Saranno state le due del pomeriggio, il cielo era aperto come oggi» dice. «Bosio e Trumlìn erano due ragazzi in gamba. Avevano qualche anno meno di me. Bosio aveva questa passione per i treni, fin da bambino parlava di rotaie e macchinisti. Trumlìn era andato un po’ a scuola poi aveva iniziato a fare il frè, a lavorare il ferro. In paese li chiamavamo Cric e Croc, uno era magro così, come un ciò, un chiodo e l’altro aveva il viso paffuto. Anche se, dopo la montagna, Bosio aveva perso chili e di paffuto gli era rimasto solo il soprannome».
Zia Corinna muove in aria le mani tozze. Pelle ruvida e graffiata. Sembra anche lei cercare risposte nel vuoto che si apre di fronte a noi.
«Era inizio aprile, quelli erano buttati in rifugi di fortuna da mesi. Stavano soprattutto in questa zona, vicino a dove inizia il fiume, sai?»
Come potrei non sapere. Il fiume dei miei giorni d’infanzia è stato anche quello di Bosio e Trumlìn. La nonna ci portava a riva d’estate. Ci bagnavamo i piedi e poi ce li asciugava in fretta anche se faceva caldo. Un nostro antenato morì dopo aver fatto il bagno in un fiume. Da quel giorno tutti ci asciughiamo con cura e ci guardiamo bene dal prendere colpi d’aria. Sia estate o inverno. Immagino Bosio e Trumlìn al fiume da bambini. Ci vedo giocare insieme. Se fossi nato ai loro tempi, avrei combattuto anch’io? Una cosa è certa: se loro fossero nati ai miei, non sarebbero saliti in montagna a mangiar poco e rischiar grosso.
«Ogni tanto passavano di qui per un pasto caldo o per cambiare delle armi difettose. Erano stravolti, sempre sul chi va là. Le poche volte che riuscivo a vederlo, Felice mi diceva che dormivano poco, quasi niente… se non dormi, ti ammali, sai?»
Mi mette una mano sulla spalla come si fa con un figlio da proteggere.
«Ma quando gli davo pane e marmellata… non posso dimenticarli i loro occhi…».
Vorrei trovare le impronte dei loro sguardi sulla pietra millenaria della Sacra che accudisce la valle. Ne cerco la figura imponente tra le piccole foglie ovali dei faggi. Ho l’impressione che zia Corinna faccia lo stesso.
«Insomma: presero questa mitragliatrice e la piazzarono su un cavalletto, proprio qui… davanti a te» indica col bastone una pietra massiccia e levigata dal vento.
«“Ridiamo una volta”, disse Trumlìn e poi spararono giù, verso la piazza».
Si porta la mano alla fronte. Sta tremando.
«Erano così giovani» sussurra.
Pare sul punto di sprofondare in un pianto a lungo trattenuto, poi si riprende e continua a raccontare come se intrattenesse un pubblico.
«Non presero nessuno, si dice che i colpi finirono contro il muro di pietra di una casa. Ma in piazza c’erano il comando dei tedeschi e la sede del partito. Neanche dieci minuti dopo arrivò la prima cannonata. Qui sopra di noi, vedi?».
Non vedo niente. Annuisco. Chi sono per negare i suoi ricordi? Penso a quanto sia importante trattenerli.
«La seconda fu terribile, scoperchiò la cappella. Lasciai la zappa e mi avvicinai con prudenza…».
Immagino la piccola cappella bianca senza più copertura. Da giù pare un coniglio adagiato sulla montagna. Mi chiedo a che animale somigliasse dopo la cannonata.
«A terra c’era la mitragliatrice. La sollevai. Andai dal generale. Presi il borsone e la infilai nello spazio che rimaneva. Vidi Bosio e Trumlìn correre via, verso il fiume. Gli chiesi dove andassero. Non risposero, alzarono le mani e attaccarono a correre ancora più forte. Ero terrorizzata, ma non potevo darlo a vedere. Ci sarà stato mezzo paese, cinquanta persone al baciàs, intorno al lavatoio. Avevamo tutti paura. Dovevo agire e basta. Corsi verso l’aia. Prima di salire, zio Felice aveva costruito un nascondiglio sotto terra. Seppellii le armi e feci il segno della croce. Mi chiesi se il Signore mi avrebbe mai perdonato, dopotutto vedeva come stavano andando le cose quaggiù. Guardai la Sacra e mi voltai verso il paese…».
Anche tu sei certa di ritrovarla sempre? Trattengo la domanda. Mi lascio portare in un passato che ho bisogno di nutrire di sangue caldo e battiti cardiaci. Lo sento impastarsi col presente, pulsare di vita nelle parole di zia Corinna.
«La strada verso casa era in discesa. Fu lì che caddi. Inciampai in una buca. Per qualche secondo non sentii niente, poi…».
Prende i bastoni tra le mani e li solleva. Ride, sembra di gioia. Mi chiedo come sia possibile. Poi li sbatte insieme sulla pietra. Una farfalla bianca vola via.
«I fascisti li accompagnarono sin qui. Chi è che ci trovava, altrimenti? Non c’era la strada all’epoca, sai? Arrivarono in dieci, quattro di loro avevano fatto la seconda elementare con me. Fingevano di non conoscermi. Gridavano, fischiavano, prendevano a calci porte e cani. Sparavano in aria, sputavano dove gli capitava. Ci disprezzavano e volevano farcelo sapere. Io mi ero chiusa in casa, per la paura e il dolore. La gamba sembrava doversi staccare da un momento all’altro. Piangevo in silenzio, temevo di mettermi a gridare senza rendermene conto. Scaldai la brace, la misi nel ferro da stiro e me lo passai sul braccio per scacciare il male che mi paralizzava».
Si tocca il fianco, storce le labbra pallide e fini. Certi dolori non se ne vanno.
«I proiettili mi pare di sentirli ancora, soprattutto prima di addormentarmi. Avevo paura che mi trovassero o che uccidessero tutti tranne me. Pensavo che uscendo avrei trovato un cimitero al posto del paese in cui siamo nati. Cosa avrei fatto da quel giorno in avanti? Gli uomini andarono loro incontro. Qualcuno diceva che se ti nascondevi eri mezzo colpevole. Ragionavano così, le carogne. A inizio ’44 trovarono zio Toni, il padre di Trumlìn, nascosto fra gli attrezzi da orto. Lo fucilarono e poi lo massacrarono con un tridente. Lui mica era un partigiano. Si era nascosto per paura. Faceva il fabbro e avrebbe voluto continuare a farlo. Ma mi sto perdendo…!».
Si volta verso il muro della cappella, seguo il suo movimento. È tappezzato di scritte. Giovanni e Marta sono stati qui qualche tempo prima di Luca e Giulia che a loro volta sono venuti dopo Francesca e Mattia. Tutti si sono amati e forse si amano ancora. Punk is not dead. Rock will never die. A sarà düra.
Cerco i nomi di Bosio e Trumlìn. Non li trovo. Saranno stati cancellati dalle cannonate o coperti dal tempo. Oppure non gli è mai importato niente di firmarsi.
Zia Corinna indica verso la cappella, in direzione delle case.
«Non so quanto tempo rimasero. Il generale li portò in casa sua. Mostrò loro che non aveva armi; nessuno avevi armi lì, erano sempre stati fuori da quelle storie di partigiani. Prese un manganellata in testa, ma non reagì. Quelli rovesciarono gli armadi, ruppero i vetri alle finestre, distrussero l’orto convinti di trovare qualcosa sotto terra. Si accanirono sul sulé, il solaio. Lo svuotarono gettando dal balcone ogni cosa che gli capitava tra le mani. Ti ricordi il solaio del generale? Un casotto unico».
Impiego qualche istante a capire che mi sta facendo una domanda. Al sulé sono stato una volta sola, avrò avuto cinque o sei anni. Ho in mente una stanza poco illuminata e dal soffitto basso, avvolta dalle ragnatele, al centro un vecchio cavallo a dondolo provato dalle tarme. Rispondo che sì, ricordo tutto perfettamente.
«Poi vennero verso di qui, verso casa nostra. Raus. Sentivo le voci avvicinarsi. Bastardi, vi troviamo. Scompigliarono il fieno nell’aia come delle furie. Wo sind sie? Qualche frase in tedesco mi è rimasta. Presero per il collo le nostre galline e le lanciarono fuori dal cortile. Mirco abbaiava troppo, lo stesero col calcio del fucile, dormì per non so quanti giorni. Mentre li guardavo nascosta dietro la finestra pensavo che se le cose si fossero messe ancora peggio gli avrei tirato il ferro da stiro caldo in testa. Pensa che fola, che stupida».
Ride di nuovo e sembra di gioia. La ammiro, ma non riesco a ridere quanto lei. Sembra che quel terrore sia toccato a me, ché invece la guerra l’ho vista solo al telegiornale. Ecco perché voglio ricordare: non posso capire fino in fondo, devo sapere per dirlo a tutti.
«Ma non trovarono il nascondiglio di zio Felice. La botola sotto la terra battuta della cantina era un’invenzione delle sue. Sapeva fare di tutto, sai. Diceva sempre che se qualcosa non c’è e ti serve devi inventarla. Se non riesci a inventarla, significa che non ti serve davvero. Per questo tutti gli volevano bene: aveva costruito mezzo paese. E poi combatteva e sapeva organizzare i combattimenti. Non è mica da tutti…».
Un brivido mi scuote il collo. Zia Corinna con delle armi in mano è un’immagine che non riesco a visualizzare. Questo fa la guerra: dà vita a mostri così assurdi che col tempo non ci credi più.
«Scesi in cortile. Non so come riuscii, per un po’ l’eccitazione soffocò il dolore. Al baciàs saremo stati in cento. Le case erano tutte vuote. Alcune teste sanguinavano, altre si reggevano a fatica. Il cane del pastore fu ucciso, ma noi respiravamo tutti e loro non avevano trovato le armi. Ci avrebbero ammazzati e poi inforcati come zio Toni. La sera venne il generale con la moglie a mangiare polenta a casa nostra. Aveva la testa fasciata e due denti in meno. Mangiai poco e bevetti grappa in abbondanza. Mi aiutava con la gamba. Speravo in un miracolo: risvegliarmi e riuscire a stare in piedi come prima di cadere. Non parlammo di quello che era successo, ma lui prima di andarsene mi disse: Felice è fiero di te. Io lo immaginai dormire tra le foglie umide e di nuovo, per un istante, il dolore se ne andò».
Per questo bisogna ricordare. Per combattere i mostri dobbiamo tenerli fra di noi. Li dobbiamo guardare negli occhi, capirne la brutalità. Sporcarci per poi uscirne puliti. Se li cancelliamo con un colpo di spugna, quelli tornano e dobbiamo ricominciare daccapo.
«Il giorno dopo arrivò la notizia dalla montagna. Bosio e Trumlìn erano scappati dai tedeschi e dai fascisti, ma non erano sopravvissuti ai cavi dell’alta tensione. Li avevano trovati Felice e la sua brigata. Con le bocche aperte e le facce annerite, uno vicino all’altro. Tutti sapevamo che quei fili erano pericolosi. Forse era notte e non li hanno visti. Nessuno sa come è successo. Li portarono a spalle appena fuori dal paese, almeno potemmo dare loro una sepoltura cristiana. Scavammo una fossa poco più in là della cappella e Don Agostino celebrò una funzione veloce, era meglio non dare nell’occhio. Pregammo sottovoce come se fossimo spiati. Poi lui scomparve tra gli alberi e torno giù».
È il quinto anno che salgo qui. Il quinto 25 aprile. La incontro sempre, zia Corinna. Non invecchia più, è vestita come l’ultima volta che l’ho vista. Indossa un largo cutìn, una gonna ampia che arriva a metà polpaccio. E porta gli zoccoli, riesce a camminare solo così. Saranno passati quindici anni. Quindici 25 aprile.
«Qualche sera più tardi, stava per fare buio, sentimmo delle voci dal bosco. Eravamo a far paschè qui alla cappella. Le chiacchiere neanche quelle carogne ce le hanno tolte, sai? Il generale e gli altri uomini sbucarono all’improvviso e si fermarono davanti a noi. Poi caddi senza sentir dolore. Mi risvegliai e vidi Felice. Aveva il volto pulito, le labbra viola, una piccola macchia di sangue vicino al cuore».
Zia Corinna stringe i bastoni. I raggi del sole si riflettono nell’oro della fede che le fascia l’anulare. Ha gli occhi più umidi del solito. Guarda verso la Sacra. Ne sono certo: la scorge, oltre i faggi. Provo invano ad abbracciarla. Poi la vedo tornare verso casa. Cammina lentamente, con le sue quattro gambe. Non ho il tempo di dirle che la famiglia si allarga. Il prossimo anno ci sarà anche nostro figlio Felice. Le faremo una bella sorpresa.
Matteo Marenco
Torino, provincia, 1992 è sociologo economico. Vive a Bruxelles, dove prende troppa pioggia e esagera con le pastiglie di vitamina D. Dottore di ricerca in scienze politiche presso la Scuola Normale Superiore, attualmente è ricercatore all’Istituto Max Planck di Colonia. Studia le trasformazioni digitali del mondo del lavoro e il loro impatto sulle vite delle persone.
Ama i massimi sistemi e i minimi dettagli. Quando non dorme, scrive narrativa. Frequenta un corso di scrittura presso la Scuola Holden e ha di recente finito di scrivere il suo primo romanzo. Pubblicarlo è un bel grattacapo. Nel 2021 ha prodotto il podcast ‘LavOra: storie di giovani e lavoro’: contenitore in cui dieci persone sotto i 30 anni hanno raccontato il loro percorso nel mercato del lavoro in Italia. Il podcast (disponibile su Spotify e Spreaker) ha ricevuto interesse da parte del Consiglio Nazionale Giovani, che lo ha promosso su suoi canali social.
Scrivi un commento